Sentenza n.1042/2024 del Tribunale di Teramo del 07.10.2024
Questione: a fronte della netta opposizione di un condòmino alla divisione del bene comune in comproprietà, si è reso necessario vagliare la sussistenza dei presupposti per considerare ammissibile la divisibilità del bene condominiale.
<< L’art. 1119 c.c. statuisce espressamente: “Le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio”.
Dal tenore letterale della disposizione, quindi, emerge chiaramente come il legislatore abbia subordinato la possibilità di procedere alla divisione delle parti comuni del condominio alla sussistenza di due fondamentali presupposti: la necessità che la divisione non comporti incomodità nell’uso della cosa (rectius della cosa prima in comunione e, dopo, divisa ed oggetto della proprietà esclusiva frazionata dei singoli condomini) e il consenso di tutti i partecipanti alla comunione.
A differenza di quanto sostenuto dall’attore in comparsa conclusionale, a detta del quale sarebbe persino superfluo dover precisare che il secondo presupposto si riferisca, esclusivamente, alle ipotesi di divisione cd. negoziale, la questione dell’applicabilità del limite della unanimità dei consensi alle ipotesi di divisione cd. giudiziale è tutt’altro che scontata e definita.
Da un lato, infatti, il Supremo Consesso ha chiarito come tale requisito– aggiunto dalla novella legislativa introdotta con legge n. 220/2012 – non possa che essere riferito alle sole ipotesi di divisione negoziale e non anche allorquando l’effetto auspicato venga richiesto in sede giudiziale, pervenendo a questa conclusione mediante un’interpretazione volta a sviscerare la ratio legis ma, soprattutto, partendo dal presupposto secondo cui tutte le eccezioni e le limitazioni al diritto di scioglimento di compartecipazioni dominicali, in un ordinamento nettamente orientato al favor divisionis, debbano essere interpretate in termini decisamente restrittivi.
Se così è, vi è da dire che tale orientamento non è stato immune da censure al punto che diversi tribunali di merito si sono da esso nettamente discostati soprattutto sulla scorta di un dato non poco significativo: l’aggiunta legislativa di tale alinea all’art. 1119 c.c. risulterebbe grossomodo superfluo laddove si limitasse il suo ambito applicativo alla divisione negoziale, essendo pressocchè scontato che tutti gli atti incidenti sulla titolarità delle parti comuni non possano che avvenire mediante accordo unanime e che, pertanto, per avere una qualche forma di significato dirimente, la norma non potesse che interpretarsi come applicabile a tutte le forme di divisione, soprattutto, appunto, a quella giudiziale (si veda sent. Corte d’Appello Milano n. 318/2022).
Ebbene, a fronte di questo contrasto interpretativo, l’odierno giudicante ritiene di dover aderire all’orientamento sancito dalla Corte di Cassazione ritenendo – effettivamente – come la ratio limitatrice della seconda condizione imposta dall’art. 1119 c.c. possa concepirsi solo a fronte di una divisione di stampo negoziale, dal momento che, se così non fosse, si ammetterebbe un indisturbato vincolo al diritto di far cessare il regime di contitolarità dei beni.
Ebbene, la condizione del consenso unanime, infatti, ha senso solo ove non vi sia il vaglio dell’autorità rispetto alla effettiva comodità dell’uso della cosa, viceversa, ove, in sede di giudizio, sia possibile accertare che la parte comune possa essere idoneamente divisa senza recare danno a nessuna delle parti, l’unanimità diventa un quid pluris stridente con il principio per cui l’impossibilità di sciogliere la comunione deve essere limitata a circostanze residuali.
La domanda di divisione, pertanto, è ammissibile e dovrà accertarsi, in sede giudiziale, la comoda divisibilità del bene condominiale quale condizione per individuare e redigere un effettivo progetto divisionale >>.
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